Ospite di maggior prestigio al Sottodiciotto 2012, il regista irlandese Jim Sheridan ha incontrato stampa e pubblico per parlare di sé, del suo cinema e del suo futuro, ma anche di politica e delle preoccupazioni per l'economia mondiale.
Davanti a una abbondante tazza di caffé nero, Sheridan ha ricordato i suoi primi approcci con il mondo delle immagini. "Ho sempre amato lavorare coi giovani, e sono molto felice di essere stato invitato qui al Sottodiciotto, c'è un festival simile a Belfast, Cinemagic, e sono molto onorato di questo omaggio", ha detto esordendo.
"Mi ricordo di quando avevo 15-16 anni, di quando mio padre installò la tv e l'antenna in casa, cercando di evitare l'interferenza dell'unico grattacielo possibile in Irlanda, la chiesa. Da allora le cose sono cambiate molto: prima da noi era la tradizione orale a dominare, poi la mia generazione - la prima a crescere su entrambi i versanti, tra parola e immagine - è cresciuta e io e Neil Jordan ne siamo stati i primi rappresentanti al cinema".
La tv si è sostituita presto al pulpito. "La gente a messa è drasticamente scesa in poco tempo, e l'Europa ha iniziato a subire l'influenza della televisione, i cui contenuti arrivano principalmente dagli Stati Uniti. Si è verificato un auto-consumo delle potenzialità dei nostri giovani, sempre più allineati - anche se inconsapevolmente - su quelli statunitensi".
I suoi primi quattro film sono profondamente legati alla tradizione e alla storia d'Irlanda ("Il mio piede sinistro", "Il campo", "Nel nome del padre" e "The Boxer"). "La realtà è molto più complessa dei film, è come una radiografia, non si tratta solo di un'immagine ma di qualcosa di più complicato e profondo. Bisogna tenerne conto quando la si vuole raccontare, senza sminuirla ma rendendola semplice: si deve camminare su due versanti, quello emotivo e quello del racconto, e quando si racconta il proprio paese è molto difficile riuscire ad essere equilibrati, forse lo può fare meglio chi è straniero. Non è semplice raccontare qualcosa che ti appartiene".
"I miei sono family movies, che vanno bene in Europa e - per gli Stati Uniti - solo nelle città come New York, Boston e Chicago, fondate da immigrati irlandesi e italiani, ebrei e neri, le stesse città in cui "arriva" anche il cinema indipendente statunitense. Dove ci sono i repubblicani, gli ambienti creati dai ricchi, un certo cinema non va: quello che faccio io è un viaggio spirituale, qualcosa di molto più profondo che raccontare una storia. La mia Irlanda è intrappolata in una rete di rabbia, furia e di appoggio all'IRA, un'atmosfera da cui ogni tanto bisogna anche staccarsi un po'. Quando ho fatto "Nel nome del padre" sapevo che avrei avuto molti problemi da parte inglese, cercando di rendere umani i miei personaggi, facendo un eroe del padre non violento".
E come giudica quindi la sua esperienza negli Stati Uniti da "In America" in poi, anche alla luce dei problemi avuti con "Dream House". "In generale lavorare negli USA è come lavorare in Irlanda, specie se lavori a film a basso (relativamente) budget. Il mio primo film là, "In America", è stato con Fox, e non ho avuto alcun problema da parte di nessuno, è stata una bella esperienza. "Get rich or die tryin'" mi ha visto lavorare con 50 Cent e con la Paramount, e per fortuna avevano appena licenziato la persona che doveva interagire con me, ho potuto districarmi abbastanza liberamente. Per "Brothers" ho lavorato con Relativity, e in quel periodo c'era uno sciopero degli sceneggiatori per cui non era possibile avere interferenze nel lavoro!".
Diverso il discorso per "Dream House", da cui si è allontanato e che ha disconosciuto così come i due co-protagonisti, Daniel Craig e Rachel Weisz. "In quel caso ho assistito a momenti di follia collettiva, con richieste folli di "ripulire" i dialoghi a pochi giorni dalle riprese, senza curarsi minimamente della sostanza. Mi hanno cambiato lo sceneggiatore, ho dovuto lavorare senza alcun appoggio e a un certo punto ho preferito tornare a Dublino e girare con altri attori circa 45 minuti del film per mostrare ai produttori cosa volevo. Non l'hanno neanche guardato, è stato un po' frustrante, ma non per questo - se capitasse - rifiuterei di lavorare ancora negli USA".
Qualche considerazione sugli attori. "Daniel Day Lewis è un poeta, tecnicamente credo sia il più bravo di tutti i tempi. Insieme forse a Charles Laughton, con De Niro migliore per la sua potenza e Brando per la sua geniale animalità incontrollabile: Daniel è il più bravo di tutti a concentrarsi sul personaggio, ha bisogno di avere il controllo. Tra le attrici avrei voglia di lavorare con Saorsie Ronan".
Nel prossimo futuro due progetti. "Uno più autobiografico, che racconta la storia della mia famiglia dopo la morte di mio fratello Frankie, quando aveva 10 anni. C'era questo orfano che si avvicinò a mia madre, ma io non lo accettavo e facevo di tutto per respingerlo: sarà un film sul crescere a Dublino. L'altro - sempre da girare in Irlanda - è sul processo di pace che l'IRA ha portato avanti dopo la morte di Bobby Sands".
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