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Note di regia di "Nadea e Sveta"

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Genesi e motivazione del progetto: Alcuni anni fa ho fondato un'associazione per l'insegnamento dell' italiano alle donne dell'Est Europa, che in Italia lavorano soprattutto come badanti e collaboratrici domestiche. Durante le lezioni, tra una regola grammaticale e un'altra, affioravano storie personali incredibili. Di queste donne mi hanno subito colpito la forza morale, la determinazione e l'assenza di qualsiasi altisonanza nel raccontare vere e proprie avventure. Mettermi nei panni di queste donne mi era tuttavia impossibile: l' empatia cozzava con la mia incapacità di comprendere l'accettazione di sacrifici tanto dolorosi. Più di tutto non riuscivo a capire come queste donne potessero convivere con la nostalgia e la frustrazione di non vedere crescere i propri figli. Ho sempre terminato questi corsi con grandi punti di domanda e una fascinazione per l'eroicità di queste storie sommerse. Un paio d'anni più tardi, una domenica di primavera sono entrata in un parco a Bologna e il paesaggio umano che mi sono trovata di fronte ha avuto su di me l'effetto di un rapimento estetico. Nel parco non c'era un solo italiano, solo tantissime donne straniere, sedute in piccoli gruppi, mangiando, chiacchierando, telefonando. Mi ha emozionata il loro modo di stare insieme perché sembravano stringersi l'una all'altra in un ideale abbraccio. L' immagine ha avuto una forza rivelatrice: quel giorno ho “visto” il film. Mi sono tornati alla mente i loro racconti di vita, carichi di desideri e conflitti da risolvere, e per la prima volta ho pensato a un documentario che assecondasse il desiderio insoddisfatto di comprendere, che provavo nell'ascoltarle in classe, e si interrogasse sull'identità geografica e degli affetti. “Nadea e Sveta” è la storia di due persone ed insieme di un'intera comunità di donne che vivono all'estero. Tuttavia il focus del film non risiede nell'interesse sociologico sulla presenza delle lavoratrici dell'Est Europa in Italia, bensì cerca di scavalcare il punto di vista del paese “ospitante” e di avvicinarsi a loro universo intimo, per lo più ignorato dagli italiani che condividono con loro la vita quotidiana. In questo senso, Nadea e Sveta sono donne estremamente comunicative, epidermiche, che ci lasciano entrare nel loro universo emozionale con una generosità di sé che tradisce il bisogno, covato in anni di solitudine, di raccontarsi a un' Italia indifferente. Lo sguardo cinematografico: Solitamente parto da un tema che mi innamora epidermicamente e in cui sento un potenziale di universalità, per quanto sempre all'interno di una poetica metonimica, interessandomi spontaneamente più alle storie personali che alla macrostoria. Amo un cinema fatto di dettagli significativi e di immagini capaci di registrare in maniera sinestetica l'universo personale delle persone, svelandone l'interiorità. Immagini che abbiano una forza sintetica e originaria. Un esempio per tutti: quando si è trattato di raccontare l'incontro di una madre e una figlia che non si vedevano da due anni e mezzo, ho sentito la delicatezza del materiale che avevo tra le mani e la necessità di rispettarlo con uno sguardo la cui potenza non risiedesse nell'indiscrezione di un occhio di bue. Ho così deciso di non filmare l'abbraccio dell'arrivo, bensì quello del risveglio assonnato dopo la prima notte insieme. Il primo è spettacolare, ma ha la freddezza della rappresentazione, di una platealità consustanziale all'evento. Nel secondo c'è la dolcezza commovente di una quotidianità agognata, di un' abitudine che si è trasformata in lusso: poter abbracciare la propria bambina e darle il buongiorno. Ciò che ho cercato in questa immagine è una sensorialità capace di restituire un'atmosfera intima a prescindere dallo sguardo: il fruscio delle lenzuola, la dolcezza delle parole sussurrate, l'odore degli sbadigli, il calore degli abbracci, la corporeità del solletico. L'approccio visivo: Lo studio accurato previo delle location e la possibilità di passare molto tempo con le protagoniste senza la camera mi hanno permesso di preparare fotograficamente le situazioni, curando attentamente la composizione del quadro e prediligendo l'uso del cavalletto in un alternarsi di primi piani e totali: da una parte la ricerca delle emozioni più intime, dall'altra la volontà di restituire la pluridimensionalità degli ambienti e delle loro connotazioni socioantropologiche. In questo senso la gestione della profondità di campo e la possibilità di giocare con il fuoco si fa categoria estetica del mondo complesso e stratificato che si va raccontando. Lo sguardo è discreto e insieme curioso: un finto passo indietro nell'ottica di spiare la scena incorniciata da una porta è complice dell'interesse dello spettatore e insieme lascia maggiore libertà ai personaggi. La lunga frequentazione senza la camera ha dato vita ad un rapporto di confidenza e complicità femminile che si è rivelato prezioso in fase di ripresa: Nadea, Sveta e le persone intorno a loro si muovono con serenità e naturalezza singolari davanti alla camera, essendosi assuefatte a una presenza esterna ed avendo accordato fiducia al progetto. La collaborazione di una troupe molto piccola e per lo più femminile è stata altresì fondamentale nel consolidare l'affiatamento iniziale, conciliando una suggestiva combinazione di prossimità ai soggetti e invisibilità della camera. Lungo tutto il percorso, dalle riprese al montaggio, mi ha guidata la determinazione a ricercare e difendere un rigore formale, in continuo confronto con i limiti del girato documentario. Un'ambizione faticosa, talvolta una battaglia persa, ma necessaria per non soccombere alla dittatura del referente, grande tentatrice del cinema documentario. Un'esperienza che ha comportato compromessi o rinunce, ma anche felici scoperte. L'approccio narrativo: Da un punto di vista narrativo, più che con una sceneggiatura in senso classico, ho lavorato con uno schema dinamico, che, a maglie larghe, ipotizzasse l'arco narrativo dei personaggi, riflettendo sui punti di giro che determinavano i cambiamenti interiori, e insieme fosse sempre passibile di ridisegnarsi a seconda dei casi della vita, prima e vera regista. Questo procedimento ha implicato talvolta la disponibilità a indietreggiare rispetto alle aspettative. Ho lavorato su due piani del racconto: il primo, preponderante, segue con osservazione diretta la vita delle protagoniste iscrivendola, come in un film di finzione, all'interno di un arco narrativo. Il secondo, più esiguo, è quello denotativo, che permette di veicolare alcune informazioni attraverso le confidenze che le amiche si passano a voce o per telefono: l'espressione di dubbi, desideri, problemi, è affidata ai dialoghi tra le protagoniste. In quest'ottica drammaturgica ho escluso l'utilizzo di interviste dirette, che ho utilizzato solo in una fase preliminare di ricerca. Non “appoggiarsi” su tale materiale, pur fascinoso, è stato un limite autoimposto, quale stimolo a cercare i nessi narrativi all'interno di una grammatica visiva. In ultimo, ho escluso l'utilizzo di musica extradiegetica, preferendo il respiro interno del film ad una colonna sonora. Maura Delpero

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