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"Io Sono", storie di schiavitù raccontate da Barbara Cupisti

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"Io Sono" di Barbara Cupisti è allo stesso tempo un documentario come tanti e un progetto unico: è "già visto" perché - come molti altri suoi colleghi prima di lei in questi ultimi anni - la regista ha deciso di raccontare le storie degli immigrati in Italia, i loro viaggi tortuosi, il loro arrivo nel nostro paese, le difficili condizioni in cui sono costretti a vivere. Ma è unico perché la telecamera - che come in altre occasioni lascia il campo totalmente ai protagonisti, eliminando l'intervistatrice dal montaggio e dalle inquadrature - raccoglie storie di per sé uniche, raccontate con grande tatto e grande indignazione. Si inizia a conoscere gli africani che da sud sono arrivati coi barconi (l'immagine più limpida negli occhi dello spettatore comune) e si arriva a incontrare gli afghani che dopo un impervio percorso attraverso Turchia e Grecia sono giunti qui, e si ritrovano a vivere ammassati in una nave abbandonata nel porto di Crotone, una nave che sta a galla per miracolo, una vera discarica in cui le condizioni di vita sono impietose. Ma si dà voce anche alle ragazze nigeriane che, appena giunte in Italia, sono state subito sbattute in strada per ripagare il loro debito (il racconto di Elizabeth, che ora ne è uscita e aiuta le sue connazionali, è toccante) e i trans brasiliani che raccontano il loro peregrinare in attesa di avere i soldi sufficienti per l'operazione (forse il segmento meno approfondito). Il quadro che ne esce - rafforzato dalla citazione conclusiva tratta da Pasolini - è doloroso e allo stesso tempo di un'umanità unica. Qualche piccola imperfezione (perché non sottotitolare tutti gli intervistati?), veniali dettagli in un lavoro di grande qualità e importanza sociale.

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