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MICHELA OCCHIPINTI - Diario da Beirut

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Beirut in 3 giorni è poco per chi, come me, non ci è mai stato prima. Ma Beirut, per me, rappresenta la chiusura del cerchio di 20 mesi densi, in giro per festival. Mesi fatti di esperienze ed incontri a volte straordinari e indimenticabili, a volte un po’ troppo autoreferenziali ed autocelebrativi per i miei gusti. D’altronde ogni ambiente professionale ha i suoi. La mia famiglia è molto legata al mondo arabo: con una nonna nata ad Algeri, un fratello nato al Cairo e un padre nato a Tunisi, poi vissuto in Marocco e che ha studiato per un tratto proprio a Beirut, non potrebbe essere altrimenti. E il film che mi ha portato qui, al Beirut International Documentary Festival, è dedicato a lui, per questo è la mia chiusura del cerchio. All’arrivo all’aeroporto c’è una folla immensa ad accogliere amici e famigliari che tornano a casa per le vacanze di Natale, quanta non ne avevo mai vista prima in altri aeroporti. Per me c’è Louay, un volontario del Festival. Direzione Mayflower Hotel nel quartiere di Hamra, che mi dicono essere rimasto il più intatto. E’ un quartiere vitale, caotico, affascinante, c’è odore di cibo, di strada, di mare. Cammino verso Al Madina Theatre, il cinema di 450 posti che ospita il Festival, incontro un po’ di gente e vedo un paio di cortometraggi molto belli, poi un film che invece non mi convince mica tanto, allora esco, alla ricerca di un ristorante nel quartiere Gemmayze, consigliato da un’amica prima di partire. Scopro che trovare le strade a Beirut è a dir poco complicato, perché sulle mappe hanno nomi in francese e sulle targhe invece numeri e nomi di quartieri che con i primi non c’entrano nulla. E poi c’è un traffico che dire intenso è dire poco. Ci arrivo dopo 2 taxi e qualche chilometro a piedi, ma è chiuso. Ripiego su una cena veloce a Downtown, poi torno ad Hamra per una birretta al Bricks, il bar del Festival, dove incontro il regista del film che mi ha fatto uscire dalla sala dopo pochi minuti. Ecco, a volte i film, come i figli, assomigliano ai loro autori, come ai genitori, cioè nel bene e nel male, e allora decido di andare a dormire. Il giorno dopo andiamo tutti insieme a pranzo al ristorante Abu Hassan, per una deliziosa ed interminabile abbuffata di mezze di ogni tipo e poi, con la pancia piena e gli occhi affamati, esploro la città camminando sul Lungomare dal lato nord fino a Downtown. Il pomeriggio si ricomincia con le proiezioni tra cui la mia. L’indomani c’è una gita organizzata dal Festival per visitare il museo Mlita e la prigione Khyiam nel sud del Libano. Per quanto interessante decido di non prendervi parte perché voglio capire qualcosa in più almeno di Beirut. E così inzia la perlustrazione dal lato sud del Lungomare fino al quartiere Ashrafieh. Mi incammino nuovamente verso Hamra, sulla punta della penisola, per godermi un tramonto in technicolor davanti agli scogli dei Piccioni, in un caffè davvero a picco sul mare ed io soffro tremendamente di vertigini. Dopo il tramonto seguono altre proiezioni. E poi una bella serata con i nuovi amici libanesi conosciuti in questi giorni: Abir, Mohamed, Tania, Lamis, Maher, Jade… L’ultimo giorno, dopo un ennesimo lauto pranzo in un piccolo ristorantino a gestione familiare, arriva il buon Louay e mi riaccompagna all’aeroporto. E’ vero, 3 giorni sono proprio pochi, ma Beirut mi ha rapita. Tra il vecchio, il distrutto, il ricostruito e il nuovo che si toccano in ogni angolo, tra visi espressivi, dai tratti variegati, begli sguardi che mi piacciono tutti, tra il fatto che in nessun luogo come qui basta spostare lo sguardo di pochi centimetri e tutto cambia. Mi scoccia solo un po’ non essere riuscita ad andare a vedere cosa c’era dietro a quell’ultimo angolo di quell’ultima strada, quella in cui forse camminava mio padre per andare a scuola tanti anni fa..

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