Non si sa da dove iniziare per parlare della trasposizione cinematografica de "Gli Sfiorati", romanzo del 1990 di Sandro Veronesi, realizzata da Matteo Rovere per Fandango.
Un romanzo acerbo e irrisolto, con al centro l'attrazione ossessiva di un ragazzo, Mete, per la sua sorellastra Belinda. Una vicinanza forzata lo costringe a mettere a dura prova la sua resistenza, portata avanti fino a quel momento semplicemente fuggendo.
Chiave di lettura di Mete per la sua vita è la scrittura. Non la sua, ma quella altrui: è un grafologo, convinto di poter ca(r)pire l'anima delle persone semplicemente analizzando poche righe scritte a mano.
Se nel romanzo si poteva già riscontrare poca profondità nell'affrontare il dilemma morale del protagonista, il film di Rovere - trascurando le tante differenze "veniali" - decide di restare ancora più in superficie, arrivando al finale senza alcuna riflessione e "svaccando" (termine poco elegante ma efficace) con una scena in cui i personaggi cantano a squarciagola allegramente per le vie di Roma "Più bella cosa" di Eros Ramazzotti. Il grado zero dell'impegno e della morale.
Modifiche strutturali, lecite ma incomprensibili, riescono a fiaccare ulteriormente una costruzione - quella del romanzo - già discutibile: Damiano e Bruno, migliori amici di Mete su carta e su pellicola, cambiano il loro ruolo e il loro destino (per entrambi un finale "simpatico" invece delle tragedie che riservava loro Veronesi) finendo sviliti e diventando, sostanzialmente, inutili.
Rovere stravolge il testo originale, regalandogli un tono comico che però stona e banalizza il tutto. E poi, per completare l'opera, toglie anche al suo protagonista (dandola a Bruno) la paternità della teoria grafologica della "sfuggevolezza" che accomuna e identifica gli sfiorati del titolo.
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