"LOrso dOro non è una vittoria del cinema italiano, ma dei fratelli Taviani. "Cesare deve Morire" è stato visto da molti, ma non è stato accettato. Io lho visto in ritardo, a novembre: è subito scattata la scintilla e cè stata una reazione immediata".
La strana congiura di Nanni Moretti, con la quale si è aperta la presentazione romana di "Cesare deve Morire", è una risposta amara e polemica a quanti hanno accolto lOrso dOro della 62ma Berlinale come un Premio di tutto il cinema italiano.
Eppure, come gli stessi registi hanno ammesso, sono state molte le telefonate di congratulazioni che hanno ricevuto e alcuni italiani, per un riverbero di orgoglio nazionalistico, li hanno festeggiati esponendo sui balconi la bandiera tricolore. Anche il Ministro della Cultura, dopo Berlino, li ha contattati omaggiandoli e individuando nellopera un importante contributo per la divulgazione di unimmagine nuova dellItalia.
Limmagine nuova è in realtà quella di sempre: quella classica italiana che si poggia sulla forza e sulla potenza dellarte e della cultura, su cui si basa anche lintera opera filmica e che cambia la vita dei detenuti-attori.
Il "Giulio Cesare" di Shakespeare, come lo considerano gli stessi registi, è poi una storia tutta italiana nella quale sono presenti i sentimenti dellodio, del potere, del tradimento, della congiura, della libertà, dellamicizia e della verità.
E come consuetudine per Paolo e Vittorio Taviani "sono state proprio le forti emozioni, quasi violente, suscitate dalla visione di uno spettacolo teatrale nel carcere di Rebibbia, sezione di Alta Sicurezza, consigliato da una nostra amica, e dalla lettura dellInferno di Dante da parte degli ergastolani, a fulminarci e a spingerci a realizzare il film. La lettura del V Canto sullimpossibilità di amare da parte di Paolo e Francesca può essere compresa pienamente se a leggere è un ergastolano che conosce nel profondo la sofferenza dei due amanti".
La forte carica emozionale ed empatica del film, infatti, poggia sul talento, sullumanità e sulla spontaneità degli attori, rinchiusi nel carcere di Rebibbia, che sono riusciti a trasferire nella rappresentazione tragica del Giulio Cesare, attraverso i loro occhi e i lori sguardi, la memoria di un passato lacerante e di un presente ancora tale, vissuto nelle sbarre di una cella. Il film ha voluto, attraverso una fotografia carica e satura, che alterna il colore al bianco e nero, dar risalto proprio ad un mondo che sarebbe rimasto sconosciuto ed emerso attraverso un racconto ciclico girato interamente nel carcere di Rebibbia, dove personaggi nobili sono rappresentati da detenuti che parlano in dialetto
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