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Il "dolore utile" di Cameron al cinema con Faenza

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"Quando scelgo un romanzo da portare sullo schermo, quello che mi interessa è il plot, la trama. Poi mi dimentico tutto il resto": con queste parole il regista Roberto Faenza ha spiegato le "libertà" che si è preso nella lavorazione del suo ultimo film, "Un giorno questo dolore ti sarà utile", tratto dal romanzo breve di Peter Cameron e dal 24 febbraio nelle sale. Partendo da questo punto di vista, quindi, diventa forse sterile e inutile sottolineare tutte le (non poche) differenze che libro e film presentano: se la struttura di massima è la stessa, però, non sono pochi gli aspetti che lasciano interdetti dopo la visione (nel libro viene giudicato poco virile mangiare la pasta rispetto alla bistecca, nel film invece si parla di un'insalata: il popolo italiano non avrebbe reagito bene alla provocazione?). L'inizio è incoraggiante, con Faenza che introduce i personaggi del suo film seguendo quasi fedelmente le pagine di Cameron, mostrando la famiglia disfunzionale del protagonista James tratteggiandone con scrupolo i ritratti. La voce fuori campo pare la soluzione più naturale per sostituire i numerosi momenti di riflessione che il libro presenta (e "vedere" New York aiuta nell'immedesimazione): peccato che Faenza decide di usarla quasi solo all'inizio. Il regista ha deciso di aggiungere alcuni spunti per alleggerire lo sviluppo (sono tutti rivolti in tal senso i momenti "in più": il cane con il casco, i postumi da operazione...). Una scelta compensibile e anche condivisibile, ma dove il lavoro di sceneggiatura (operato dallo stesso Faenza insieme a Dahlia Heyman) sbaglia in modo quasi clamoroso è nel trasformare il personaggio di James (un 17enne che si trova a disagio con i propri coetanei e che non riesce a trovare il suo "posto" nel mondo) in un "rivoluzionario a cui questa società non va bene così com'è e che cerca a suo modo - riuscendoci in parte - di cambiarla". Sono parole del regista, che stonano terribilmente con quanto Cameron ha scritto nel suo romanzo di formazione. Dalla metà in poi le discrepanze con il libro diventano evidenti e sempre più stridenti, fino ad arrivare a un finale oltre che banale (il "dolore utile" del libro è un'altra cosa rispetto a quello del film!) anche inutilmente consolatorio. Cameron sceglie di raccontare una difficile settimana della vita di un adolescente "disadattato", senza osare nel fargli trovare chissà quale soluzione. Per Faenza invece sembra possano bastare un paio di corsette insieme alla "life coach" (le sedute dalla psicoanalista del libro erano troppo banali?) per ritrovare il sorriso. Un libro di tale sensibilità meritava un trattamento migliore, e nonostante il cast di livello (artistico e ancor più tecnico) il film rimane una lettura troppo superficiale e didascalica. Parafrasando la frase del protagonista: "Per me (...) i pensieri sono più veri quando vengono pensati, esprimerli li distorce o li diluisce, la cosa migliore è che restino nell'hangar buio della mente, nel suo clima controllato, perché l'aria e la luce possono alterarli (...)", la storia di James non avrebbe dovuto essere "alterata" dal suo trasferimento sullo schermo: sarebbe stato meglio lasciarla nell'hangar della pagina scritta.

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