Difficile capire perché il libro di Stefano Massaron "Ruggine", che racconta lo scontro tra un gruppo di bambini e un terribile pedofilo, risulti così disturbante (a tratti rivoltante) nella narrazione della perversione del suo mostro, mentre il film che ne ha tratto Daniele Gaglianone, pur riprendendo la storia quasi pedissequamente, riesca ad essere freddo e (quasi) asettico.
Sicuramente influisce la scelta di dare voce su carta ai pensieri del dottore-pedofilo, facoltà che lo schermo affida solo all'espressività fisica di Filippo Timi. Ma forse c'è anche la volontà di non mostrare troppo (censura?), e di rendere le azioni più atroci "lontane" dagli spettatori, per difenderli dall'orrore.
Come nel romanzo, il racconto nel film è diviso su due piani paralleli: l'oggi - con i protagonisti adulti, segnati dalla loro esperienza - e il 1977, l'epoca dei fatti. Gaglianone decide di non modificare - se non minimamente - la parte storica, quel 1977 in cui la popolazione degli Alveari, un quartiere popolare e periferico, venne segnata dall'arrivo del dottor Boldrini, medico di fama che approfitta del suo ruolo per trovare nuove vittime.
Solo l'attualità, infatti, viene completamente trasformata: nel libro Massaron si concentra su due ragazzi, in cui il ricordo si risveglia alla lettura di un banale articolo di giornale, e che si rimettono in contatto casualmente via e-mail e tramite il computer confrontano i loro malesseri.
Era inevitabile che un simile meccanismo sullo schermo non avrebbe potuto reggere, ma la soluzione attuata da Gaglianone convince solo in parte. Gli adulti diventano tre (Stefano Accorsi e Valeria Solarino, che riprendono i personaggi di Sandro e Cinzia, già nel libro, e Valerio Mastandrea, il Carmine adulto che nel volume mancava) e i loro ricordi non sono risvegliati, semplicemente vivono con loro - senza essersi mai spenti - trasformandoli in adulti timorosi e feriti.
Il loro "oggi" è vissuto indipendentemente: Accorsi è un padre che gioca con il figlio, Solarino un'insegnante che si trova a difendere una ragazza (forse) molestata, Mastandrea un disilluso amareggiato. Le loro storie e il loro quotidiano sono però la parte meno riuscita del film, un po' forzate, stancamente raccontate e troppo slegate per emozionare: resta un'immagine, la più forte, con i tre che si incontrano senza incontrarsi in un vagone della metro, ma è collocata al montaggio solo durante i titoli di coda.
Infine, una nota sul personaggio del dottor Boldrini, interpretato da Timi. Se dalla semplice visione si potrebbe facilmente evidenziare una recitazione eccessiva, troppo sopra le righe e forzata, dopo aver letto il libro, al contrario, appare inevitabile rivalutare il lavoro dell'attore, che riesce a rendere perfettamente la follia e il "disturbo" di un mostro atroce, come pochi altri se ne ricordano nel recente cinema italiano.
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