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ADRIANO PICCARDI - Sono solo canzonette?

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C’erano una volta, i musicarelli. Bei tempi. Tutto semplice: un mucchietto di canzoni, un/a cantante, una storiella a fare da pretesto per l’esibizione videocanora del/la protagonista, la canzone più nota dava il titolo al film. Fatto. Ecco, il titolo. I musicarelli ora non ci sono più, ma da qualche anno (otto? nove?) titoli di canzoni della tradizione sessanta/settantesca, oppure frammenti di versi tratti dalle medesime, periodicamente ritornano nella veste di titolo di un film. Almeno di una ventina di film, dal 2006 a oggi: così risulta dal mio computo personale, ma è facile che ne abbia perso per strada qualcuno. Venti film non sono pochi. E il fenomeno è trasversale: riguarda opere dirette da sconosciuti esordienti che magari resteranno tali, ma anche da registi dal tocco autoriale riconosciuto; film “di nicchia”, come si dice, ma anche campioni di incassi al box office. Tutto questo spinge a farsi delle domande. Una: da dove proviene l’appeal che impone una scelta di questo tipo? Il titolo di derivazione canzonettistica dona quasi sempre al film un’aura preventiva particolare. Si mettono in moto nella mente del potenziale spettatore associazioni – spesso molto personali, immagino – che danno origine ad aspettative. Il problema casomai è se queste aspettative corrispondono alle suggestioni che hanno portato sceneggiatori o registi o produttori a optare proprio per quel titolo. Non sempre l’alchimia funziona. A visione in corso, a volte invece di identificazione si ingenera straniamento o quantomeno difficoltà di sintonia. Due: è veramente sempre necessario ricorrere a quella fonte per inventare un titolo adeguato alla storia messa in scena? L’appeal di cui sopra ha un qualche rapporto con la vicenda o è semplicemente uno specchietto per le allodole? Ma qui si ritorna alla prima domanda. Se si pensa di usare il titolo soltanto come esca, che cosa fa pensare a una sua effettiva efficacia? Affiora un’idea di cultura popolare di cui cinema e canzonette costituiscono elementi costitutivi complementari, che reciprocamente si rimandano immagini, intuizioni, analogie a distanza. Interessante consapevolezza da parte di realizzatori e produttori, del tutto condivisibile. Che alla lunga si fa però pedante e in qualche caso anche controproducente. Spesso sarebbe meglio lasciare che le associazioni mentali non si caricassero davanti a un titolo, ma si liberassero durante la visione (se possibile).

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