"Ecce Ubu" vuole essere un rigoroso sepolcro. Un cimitero del cinema. Non vi è narrazione se non per involontarietà o per impossibilità di uscire da un grosso fraintendimento ineludibile. È una severa sequenza matematica alla quale abbiamo assoggettato il vetusto materiale a cui avevamo accesso. Molto simile ad una grossolana eccitazione che si sfoga nellapparizione di un simulacro, di un feticcio: lapparizione finale delluomo pasciuto è da ricondurre al più classico e canonico finale che dal cinema ci si aspetti. Una classicità immobile e ferma su cui le sequenze, ripetute per 55 minuti, preparano il terreno ove è predisposta lapparizionedi un ecce homo e di un Ubu Roi raggruppati per una volta in un solo corpo.
Tutto il film è costruito nel tempo e sul tempo, su vecchi filmati amatoriali recuperati, non certo per memoria o ricostruzione storica, ma solo al fine didattico dellultima immobile esplosione. Nel loro dipanarsi le sequenze prendono una nuova chiarezza dovuta allossessività di questo eterno ritorno, e così pur essendo sempre le stesse si confondono con il viversi dando alla semplice dilatazione temporale leffervescenza e lapparenza di una risibile, nuova e inconsistente realtà.
In tutto questo la composizione scritta da Dario Agazzi è da considerarsi il collante di questo percorso obbligato, senza ostacoli. È la necessaria via crucis a cui viene sottoposto il fruitore in attesa di una venuta, questa volta non salvifica, in quanto ecce ubu, che ci guarda silente e con severo rigore, altro non è che uno specchio in cui non vogliamo riconoscerci più.
Luca Ferri
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