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Cesare Canevari un regista poco italiano

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Martedì 11 dicembre 2012 al Cinema Trevi di Roma si ricorda Cesare Canevari, recentemente scomparso nella sua Milano, con una selezione delle sue opere più importanti. Canevari è uno di quei pochi registi che non si è voluto spostare a Roma perché come dichiarava in un’intervista a Christian Arioli: "Non ho mai voluto andare a Roma per girare i miei film perché non mi trovavo bene. Preferivo restare qua a Milano dove tutto per me era più congeniale. Alla fine non c’era bisogno di andare nella Capitale per fare cinema, se volevi avere dei doppiatori molto bravi di là bastava ingaggiarli e farli venire a Milano. Certo, per la stampa dei negativi qui non eravamo attrezzati ma per il resto...". Ha spaziato dal western ("Per un dollaro a Tucson si muore", "Matalo!") allo spionistico pop psichedelico ("Una jena in cassaforte") e a varie declinazioni dell’eros: dall’erotico intellettuale venato di atmosfere alienanti alla Michelangelo Antonioni, congiunto al surrealismo dei fumetti di Valentina di Guido Crepax ("Io Emmanuelle"), a quello folle e delirante ("La principessa nuda"), senza dimenticare l’eros-svastika ("L’ultima orgia del terzo Reich") e l’eros colorato ora di giallo ("Delitto carnale"), ora di rosso, il colore del melodramma (Il romanzo di un giovane povero). Canevari comincia da giovanissimo negli anni Cinquanta come attore “amoroso”, ovvero interpretando i ruoli di ragazzino innamorato, per poi proseguire sui sentieri impervi della produzione e della distribuzione, tanto che il suo esordio registico derivava dal fatto che il regista Oscar De Fina aveva deciso di non girare più il western "Per un dollaro a Tucson si muore" e così Canevari, che produceva il film, decise di mettersi lui dietro la macchina da presa per non perdere tutti i soldi. Ed è sempre Canevari a decidere per il titolo in italiano del film di Nicolas Roeg, Don’t Look Now, in A Venezia un dicembre rosso shocking: "Mi ricordo che l’ho pagato bene quel film per averlo, mi pare cinque o sei milioni. A Milano è stato su un mese in prima visione. Comunque, quando sono rientrato dopo averlo visto, il responsabile da Roma mi chiama e mi chiede: “Allora?”; “Hai fatto bene” gli dico “il film c’è! Però attenzione: o si trova un grosso titolo o altrimenti non fa una lira”. Mi hanno mandato una lista di titoli che già avevano pensato. Uno era “La vera storia di Cappuccetto Rosso”! Ma si può?! Questo era il parto di una distribuzione importante di Roma!". Schivo, dei suoi film ne salvava ben pochi: dal suo più amato "Io Emanuelle" ("Era proprio il genere di film che amavo fare, stile francese: ero innamorato di quelle atmosfere intimiste che ho poi riprodotto nel mio film. Non so perché ma mi affascinano tutt’ora. Io Emmanuelle è andato molto bene soprattutto all’ estero, in Inghilterra") a "Matalo" ("Ho voluto creare qualcosa di innovativo ma senza inserire chissà quali messaggi, volevo soltanto raccontare una bella storia, tutto qui, con l’intuizione dei dialoghi ridotti all’osso che funzionano molto bene. Non è stata mia intenzione fare una regia distaccata, semi-documentaristica, anche se a qualcuno potrebbe suscitare questa impressione") a "Una jena in cassaforte", considerato da Canevari stesso il suo vero esordio. In tutta la sua filmografia ha dimostrato uno stile poco italiano di mettere in scena storie raramente banali, con un’estetica debitrice alla Nouvelle Vague (Godard in primis) e a certi autori eccentrici del cinema inglesi (Ken Russell e Nicolas Roeg).

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