I dont speak very good, I dance better segue tre filoni narrativi intercalati da un intermezzo che ritorna ossessivo come quello che rappresenta (il roteare di un derviscio): la storia personale del regista che vola verso Il Cairo per trovare i suoi fratelli malati è lo spunto per indagare sulla situazione sanitaria egiziana; lo spettacolo portato a Roma dalla compagnia Reda in occasione dei suoi cinquantanni dalla fondazione rappresenta larte egiziana nel mondo e affronta, con un'intervista a Mahmoud Reda, il punto di vista di chi ha voluto fortemente estraniarsi dalla politica del proprio paese anche per riuscire a sopravvivere ai cambiamenti; losservazione del movimento di piazza Tahrir testimonia il clima di uno dei momenti più deflagranti del mondo arabo.
I tre racconti non si incrociano mai e questo penalizza la visione che risulta frammentata, priva di una direzione: vedere per lennesima volta le immagini di piazza Tahrir ci fa esigere qualcosa di più della semplice osservazione (seppure risulti sempre molto dimpatto lo sguardo dallalto della folla in fermento) e assistere a squarci di spettacolo di una compagnia di ballo di così lunga tradizione richiederebbe qualche approfondimento in più sulla compagnia stessa ed, eventualmente, il ruolo del teatro in Egitto (la breve intervista a Mahmoud Reda è molto superficiale).
Laspetto affrontato con lo sguardo più indagatore, che quindi suscita più attenzione, è lapprofondimento sulla situazione sanitaria, e in particolare sulla struttura ospedaliera a cui si rivolge la sorella del regista: in questo caso linteresse personale ha guidato istintivamente locchio di chi stava dietro la telecamera più in profondità.
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