A Torino per presentare il suo libro "Docdoc Dieci anni di cinema e altre storie" (Edizioni Quaderni di CinemaSud), Gianfranco Pannone ha incontrato il pubblico per parlare di sé ma anche - e soprattutto - del documentario italiano in genere.
Un'occasione importante per fare il punto sulla situazione odierna e su quanto è cambiata in questi ultimi dieci anni: il volume raccoglie gli interventi che il regista ha scritto in questi anni per il sito ildocumentario.it, e rileggendoli è inevitabile notare le mutazioni in atto.
"Considero questo libro una testimonianza", ha esordito Pannone. "Nel nostro paese si fatica molto a vedere l'interdisciplinarietà, mentre io amo molto muovermi su più fronti: sono un documentarista, in primis, ma insegno anche all'università, scrivo e partecipo a incontri e seminari. Non voglio fare il tuttologo, ma in Italia si tende troppo a chiudersi nello 'specialismo', ci si arrocca nella fortezza delle proprie conoscenze e da lì - anche per difesa - si insegna e si parla".
"A inizio 2000, data a cui risalgono i miei primi articoli, c'era molto più confronto tra gli autori, oggi ognuno sta più per conto suo: c'è la crisi, certo, e si fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, ma c'è anche molta confusione e meno voglia di incontrarsi".
"In Italia i problemi sono tanti, ma non darei - ad esempio - troppe colpe all'Istituto Luce (la battuta che gira nell'ambiente è "Se vuoi risolvere il problema della droga, falla distribuire al Luce"). E' vero che hanno fatto tanti errori, che in passato facevano lavorare sempre gli stessi, ecc.: ma è anche vero che in questi ultimi tempi senza di loro non avremmo visto prodotti interessantissimi come "Pasta Nera" di Alessandro Piva, o "Terramatta" di Costanza Quatriglio.
Personalmente ho avuto con loro esperienze molto negative - il dietrofront politico dell'ultima ora per "Il Sol dell'Avvenire" - ma poi quando ho proposto loro "...ma che storia", forse per farsi perdonare, hanno accettato e nei 7 mesi che ho lavorato al loro interno mi sono trovato benissimo. In un panorama in cui la Rai è inesistente, il "casino" del Luce è comunque qualcosa di positivo".
"Non concepisco che in un documentario manchi il respiro laico, non posso come autore voler dire la mia a priori, lidelogia ammazza il documentario. In Italia trovo o sguardi poetici oppure intenti politici presi 'di petto': sembra impossibile poter raccontare la realtà".
L'80% dei registi non fa documentari perché la realtà non la puoi plasmare come vuoi. Io i miei principi li ho, ma se li metto davanti a tutto perdo occasioni interessanti di raccontare storie".
"Documentario è una parola che non amo, è limitativa. Cinema del reale non vuole dire nulla, e l'ipotesi di usare 'non fiction' non mi piace perché non voglio partire con una negazione. Quindi? Servono le definizioni? Un film come 'Close Up' in che casella lo mettiamo?".
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