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VENUTO AL MONDO - A vent'anni da Sarajevo

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Il film di Sergio Castellitto lascia in bocca, e nello stomaco, la stessa sensazione di "Diaz" di Daniele Vicari. Una serie di pugni ben assetati, con il dolore causato che svanisce rapidamente una volta usciti dal cinema. Cosa rara per il nostro cinema, "Venuto al Mondo", può vantare una storia ricca, intrecci che funzionano, personaggi secondari che hanno un loro carattere e una personalità importante nell'economia del film. Il romanzo di Margaret Mazzantini, da cui il film è tratto, è pieno e profondo e sembra scritto pensando al cinema, al grande cinema d'amore e d'avventura, con azione e sentimento, umanità e crudeltà, interpreti di livello internazionale; tutti ingredienti ideali per la riuscita di un film. Quel che manca però è il lievito, la forza dell'impastatore e un pizzico di creativa originalità del cuoco. Il film di Castellitto, parte lento e fatica a coinvolgere lo spettatore, forse a causa di alcune frettolose soluzioni di sceneggiatura (l'incontro tra i due) o di poco approfondite presentazioni dei personaggi, i quali avranno tempo per mostrare se stessi solo quando ormai è troppo tardi. La storia c'è, e l'intreccio colpisce con vigore ma la percezione dello svolgimento è priva di suspence, con i colpi di scena che arrivano o troppo annunciati o ormai inattesi, quando cioè la vicenda ha perso interesse e capacità di coinvolgere. "Venuto al mondo" sembra un film assemblato malamente, squilibrato, che mostra spesso l'esigenza di riparare a questi errori di costruzione; con l'enfasi delle frasi (l'amico bosniaco non parla, pontifica...), con la pressante e didascalica presenza della colonna sonora (gli archi sotto la scena d'amore), con l'esigenza di non scendere mai di ritmo, sfiorando in continuazione il parossismo. Un rischio che non corre Penelope Cruz, affermata e in grado di gestire al meglio il suo personaggio. Un po' di più rischia Emile Hirsch, che per la giovane età e la limitata esperienza scivola spesso in una recitazione "italiana", esagerando, specie nella parte iniziale, con gli ammiccamenti, la "simpatia" ad ogni costo o il prevedibile sconvolgimento irrazionale. Pietro Castellitto, figlio di regista e autrice, è bravo a mettere se stesso nel personaggio, rendendolo forse il più normale e credibile di tutti. Uno sforzo riuscito a metà dunque, questo di Sergio Castellitto il quale si lascia sfuggire l'occasione, ormai sempre più rara, di realizzare qualcosa che potrebbe avere a che fare con il vero cinema.

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