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Note di regia de "L'Insolito Ignoto - Vita Acrobatica di Tiberio Murgia"

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Una faccia che bucava lo schermo. Capello corvino, sopracciglia cespugliose, baffetto malandrino, mento all’insù come a reclamare una nobile alterigia che il dna di proletario sardo gli negava. Tiberio Murgia forse non avrebbe meritato un documentario solo per la lunga carriera di caratterista. Il personaggio che gli aveva cucito addosso Mario Monicelli – il siciliano geloso, focoso, sciupafemmine – ha finito per imprigionarlo: Murgia ha clonato Ferribotte centinaia di volte tra parodie, imitazioni, remake fino a svuotare la caricatura d’ogni efficacia. Cosa c’era oltre la maschera? Una vita picaresca, quasi la sceneggiatura di un film di serie B. La storia di un “cenerentolo” baciato dalla fortuna nella dolce vita dell’Italia del boom che per l’incapacità di vestire i panni del ricco finiva, anche per ignoranza, per scialacquare ogni benessere. Un’esistenza da acrobata, oscillante fra bugie colossali e arte d’arrangiarsi, una figurina del povero meridione d’Italia ustionata dai neon del successo. E, soprattutto, il buffo cortocircuito di chi aveva scambiato, senza volerlo, la vita con il cinema e il cinema con la vita. Ecco: questo sarebbe stato il cuore del documentario. In fondo non c’era alcuna differenza fra il personaggio del siciliano stereotipato che aveva replicato in tutti i film perché lui era proprio così, ben prima che il cinema lo “corrompesse”. Geloso, pasticcione e falso, tombeur de femme di secondo livello, ma anche galante, rispettoso, timido. Insomma un'impostura vivente che ha saputo barcamenarsi nei guai che combinava. Sembrava che il suo destino fosse segnato già dalla nascita. E infatti, curiosamente, una notte, anagrammando nome e cognome, si svelarono all’improvviso tutte le tappe della sua vita: emigrazione, Roma, la carriera d’attore, le donne, la bigamia, gli anni goderecci, le bugie, i guai. Un gioco, certo; ma più serio di quanto potesse sembrare. Gli ideali capitoli della storia di Tiberio c'erano già, si trattava di capire cosa ne pensasse l'interessato. Aderì subito al progetto con entusiasmo, anche perché credeva di ricavarci qualche soldo, ma la malattia aveva iniziato a consumarlo. I finanziamenti per iniziare le riprese non arrivavano mai, decidemmo di autoprodurci prima che accadesse l’irreparabile. La sceneggiatura originale (era previsto un viaggio con Tiberio nei luoghi della sua infanzia e maturità e nei set dei film) non serviva più, il documentario avrebbe seguito un’altra strada. Lui era ricoverato in una casa di cura per anziani, ostentava senza supponenza l’antico blasone cinematografico come per distinguersi dal resto dei pazienti dalle menti annebbiate. La direzione ci offrì un intero piano della struttura che non era ancora stato aperto: per cinque giorni ci “ricoverammo” con lui. E Tiberio, in quelle interminabili giornate, si confessò, levando il paravento della sbruffoneria e spogliandosi della sindrome di Pinocchio. Il nostro patto segreto, suggellato da un pacchetto di sigarette consegnatogli sottobanco, fu questo: stavolta raccontiamo la verità. “Va bene, purché nessuno mi offenda”, disse. Da buon peccatore sapeva che pentimento e perdono sono le risorse per salvarsi l’anima. E pure la reputazione.

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