Il regista scoperchia la bara della memoria e fa riemergere attraverso le parole stesse dei protagonisti un settennio di vergogna, miseria e tragedia umana che, mentre si consumava alle porte di Roma, si voleva anche collettivamente rimuovere. I "Profughi a Cinecittà".
Sono gli anni della Seconda Guerra Mondiale. Nel 1943 i nazisti "deportano" 947 uomini rastrellati dal quartiere Quadraro a Cinecittà, piazzandoli negli studios come animali al macello. Poco più tardi, ad ottobre dello stesso anno, decidono di depredare quanto c'è all'interno degli studios stessi e 16 vagoni merci carichi di materiale e attrezzature finiscono in Germania e a Salò. Nel gennaio 1944 gli americani, mentre bombardano Roma, colpiscono anche Cinecittà, e in giugno decidono di requisirne il controllo e farne un campo profughi. Ma sui generis. Da una parte, rigidamente separata, l'area internazionale, dall'altra i rifugiati italiani. Tra cui i figli dei coloni in Libia come le sorelle Ostrini, Angelo Iacono diventato poi produttore cinematografico, gli esuli triestini e dalmati, molti ebrei che scappavano o rientravano dai campi di concentramento. Storie di intere famiglie separate solo dalle scenografie dei set cinematografici, tutti dentro al Teatro 5, in una promiscuità totale e innaturale.
Le sorelle ricordano come una volta fuori dal campo "non bisognava dire che si veniva da Cinecittà, perchè era considerata una vergogna".
Lo stesso Iacono, a fine serata, molto commosso ricorda come "se non fosse stato per Marco Bertozzi avrei rimosso questo ricordo della mia vita, non ne avevo mai più parlato, non volevo parlarne. Io mi vergognavo. Le ragazze che dicevano di essere state a Cinecittà rischiavano di non trovare più marito. Noi si voleva solo dimenticare quella condizione".
Per uno strano gioco del destino molte di queste persone vennero poi aiutate dagli studios a racimolare qualche soldo facendo le comparse. Assurdo, ma vero. In "Quo Vadis?", per esempio, molti sono i profughi che passano davanti alla macchina da presa.
Un dramma umano che è durato fino al 1950, quando il campo di Cinecittà viene sgomberato - nel documentario un giovanissimo Giulio Andreotti, sottosegretario agli interni dice "dobbiamo mandare la gente a casa e restituire questo luogo al cinema - senza però trovare soluzioni reali per tutti gli "sfollati". Iacono fu ospite altri tre anni di due campi, le sorelle Ostrini lo stesso.
Ma la cosa più interessante di questo documentario prodotto dalla Vivo Film e dal Mibac è che l'unico materiale di repertorio video (a parte le fotografie) si vede all'inizio, dura pochissimi istanti, ed è di proprietà americana. Si vedono in un bianco e nero rude e impietoso intere famiglie separate da mura fragilissime di ex-set lavarsi, mangiare, dormire, vivere.
Ma come mai non esistono documenti filmati di questa vergogna? Come mai il neorealismo italiano non mette mai il naso lì dentro?
"L'ho chiesto a Lizzani - conclude Bertozzi - e mi ha detto così, "Lo sapevamo tutti cosa stava accadendo lì dentro, ma volevamo tenercene lontani".
Aggiungendo forse vergogna alla vergogna e a dispetto di quella frase del Duce che recita "La cinematografia è l'arma più forte".
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