Martina (Greta Zuccheri Montanari, "Luomo che verrà") e Marta (Yle Vianello, "Corpo celeste") sono due bambine cinematograficamente quasi coetanee (2009, 2011), anagraficamente solo un pochino più distanti, ma lontane tra loro come due galassie se considerate sul piano della Storia, quella con la esse maiuscola.
Per parafrasare Pasolini, se la prima appartiene a quel mondo dove ancora potevano abitare le lucciole, la seconda vive tempi in cui le lucciole sono un ricordo sbiadito, neppure più una forza del passato.
Nel cinema italiano troviamo spesso bambini che guardano il mondo interrogandosi sul suo significato o che, avendoci già rinunciato, lo affrontano a muso duro anche se con le ossa rotte. Perché il mondo appartiene a una specie umana gli adulti dai riti non sempre comprensibili e dagli interessi quasi sempre in conflitto, nei quali chi sta sotto i quindici anni non trova quasi mai il posto che dovrebbe. Martina non parla, Marta è guardinga con le parole, reticente, raramente si lascia andare per non doversene poi pentire. Entrambe sono tuttocchi e orecchi.
Ma la prima si muove tutto sommato ancora tra famiglia e natura (che è anche cultura, o quasi: almeno finché la Storia non irrompe brandendo la tecnica e la politica, le armi e le ideologie, a devastarne i legami interni). E in quella cornice sia prima che dopo la tragedia anche la religione sembra possedere un suo senso misterioso, un po sospetto (sempre di adulti si tratta
). Nella realtà in cui la seconda si trova scaricata, natura e cultura non esistono neppure più, fatte a brandelli e rese irriconoscibili anche sotto i segni del grottesco. Tutti vi sono perennemente in guerra, nonostante le apparenze, e la famiglia è un fantasma, non un rifugio, per quanto fragile. Qui la religione è un prete di città depresso, uno di montagna scampato alla modernità come un brigante, un crocefisso corpo celeste in libertà provvisoria fra le onde e gli scogli.
Martina alla fine culla il fratellino, luomo che verrà, e miracolosamente gli canta una ninnananna. Marta tiene fra le mani il miracolo di una coda di lucertola che, ostinata, non rinuncia alla sua enigmatica vitalità.
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