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ADRIANO PICCARDI - Poliziotti violenti nel cinema italiano

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In questi primi mesi del 2012 la polizia ha fatto irruzione nei cinema italiani. Sugli schermi. Due i film cui mi riferisco, ACAB – All Cop Are Bastards di Stefano Sollima e Diaz di Daniele Vicari. Non la polizia da indagine, ma quella da combattimento. I nuclei operativi, quelli che in assetto “antisommossa” possono caricare, secondo necessità, ultras sovraeccitati, scioperanti incazzati o dimostranti del tutto alieni da comportamenti distruttivi. Ridurre all’ordine i soggetti in questione è l’obbiettivo. Strumento di dissuasione è il tonfa, il manganello d’ordinanza, citato e utilizzato largamente in entrambi i film. Che colpiscono per l’esplicita affermazione della coppia polizia/violenza; un abbinamento insolubile, il cui secondo elemento è “naturalmente” legato all’esistenza del primo e ai compiti per cui questo esiste. Qui non si tratta più dell’abituale e “tranquillizzante” dialettica poliziotto buono/poliziotto cattivo. Qui chi non ci sta deve andarsene (ACAB) oppure soffocare i suoi scrupoli e comunque eseguire gli ordini (Diaz). Una terza possibilità non è data. La novità di cui sono portatori i due film sta nel come entrambi – pur tra loro diversi – lavorino senza incertezze sull’accorpamento tra individualità e collettivo, trasformando il singolo agente in un’espressione necessariamente particolare di qualcosa (quel nucleo operativo che non a caso possiamo denominare anche “unità”) che in ultima analisi non può che assimilarlo fisicamente agli altri con cui si schiera, carica, colpisce. Significativo che nel film di Sollima non possa mancare il riferimento ai fatti di cui Diaz si occupa nello specifico. Certo, il risultato cui perviene Vicari è più convincente nella misura in cui riesce a focalizzare tutta l’attenzione sulla fenomenologia dell’evento. La giusta distanza ottenuta distribuendo barlumi di privato con grande equilibrio compositivo fra entrambi gli schieramenti. A differenza di Sollima che non riesce a evitare, per amor di narrazione, di dare troppa concretezza (famiglie, case, sentimenti) agli uni, che diventano così inevitabilmente più prossimi a noi, al prezzo però di sfumare gli altri in una controparte tanto più minacciosa quanto più astratta. Prescindendo dai risultati individuali, piace però ciò che accomuna le due strategie di prospettiva: mostrare in filigrana nella rappresentazione dei fatti un’idea della violenza come strumento di controllo perennemente sul punto di sfuggire al controllo di chi la esercita. Quella condizione, infine, che la rende irrinunciabile per chi se ne serve da dietro le quinte.

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