E' un'opera teatrale quella su cui Fabrizio Cattani ha basato il suo "Maternity Blues", scritto insieme all'autrice del testo, Grazia Verasani. Il tema trattato è forse uno dei più ostici che si possano immaginare, quello delle madri che uccidono i propri figli.
Il libro presenta solo quattro personaggi (Rina, Eloisa, Vincenza e Marga) e un unico spazio d'azione, la clinica in cui le donne sono state rinchiuse dopo le rispettive condanne. Era inevitabile che il film presentasse qualche differenza (a parte quelle piccole, come il nome di Marga che diventa Clara), e se non si può dire che Cattani abbia "tradito" lo spirito del libro (lo ha pur sempre scritto con l'autrice originale!) di certo ne ha modificato non poco alcune caratteristiche.
Dalla carta allo schermo cambiano principalmente due cose, la "vita" della clinica (si vedono anche le altre pazienti, "agiscono" i dottori e gli infermieri), compresa la violenza contro Eloisa, e tutta la parte che riguarda il marito di Clara, compreso il loro incontro finale. L'incomprensibilità delle azioni delle madri/mostri rimane, ma mentre il testo lascia capire tutto al lettore da solo, il film sente la necessità di spiegare l'ovvio, aggiungendo troppe parole (le chiacchiere delle persone per strada, i ragionamenti del prete, il convegno) quando forse sarebbe servito toglierne.
Il resto è rimasto intatto, in particolare i dialoghi tra le quattro donne e alcune loro caratteristiche (la depressione - la "maternity blues" del titolo del film - di Vincenza, la dolcezza di Rina, la sfrontatezza di Eloisa...): alcune idee funzionano - le madri che a turno dicono di non dare la colpa a nessuno per il loro gesto, se non a loro stesse - ma nel complesso il film di Cattani, nel tentativo di staccarsi da un testo originario troppo teatrale, ne perde per strada i pregi senza trovarne di nuovi.
Dispiace, perché il tema meritava di più e se resta meritevole da parte degli autori l'averlo affrontato, "Maternity Blues" rimane solo uno spunto. Ma per questo bastava il libro.
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