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"Corpo Celeste", un film tra il lirico e il reale

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Con "Corpo Celeste" appare nel panorama del cinema italiano una nuova valida voce, quella della ventisettenne Alice Rohrwacher al suo primo lungometraggio - produzione italo svizzero Amka Film, la dinamica casa di produzione di Savosa e RSI. La regista - sorella della nota attrice Alba - è nata a Fiesole. Si è laureata a Torino in Lettere e Filosofia, ha ottenuto il Master in sceneggiatura e linguaggio documentario presso la Videoteca Municipal di Lisboa, Portogallo, e il Master in tecniche narrative, sceneggiatura e drammaturgia presso la scuola Holden di Torino. Ha diretto con Pier Paolo Giarolo e montato il documentario "Un piccolo spettacolo", primo premio alla festa internazionale del cinema documentario di Roma 2005. Con Alexandra Loureiro ha diretto il film "Vila Morena", prodotto dalla Videoteca Municipal di Lisbona. "Corpo celeste", interpretato dalla giovane Yle Vianello, da Salvatore Cantalupo e da Anita Caprioli, suo primo lungometraggio ha ottenuto validi consensi e riconoscimenti a partire dal Festival di Cannes, dove è stato presentato alla Quinzaines des Réalisateurs. Pellicola ben congegnata, intensa e ben interpretata che pur affrontando diverse tematiche fondamentali della vita odierna italiana: quali il ruolo della religione, l’inserimento in un nucleo sociale nuovo da parte di un adolescente, la crescita di una città, ha il suo giusto registro narrativo in bilico tra il lirico e il reale. Marta, tredici anni, ritorna a vivere insieme a sua madre e a sua sorella, a Reggio Calabria città nella quale è nata, ma che non conosce, essendo vissuta in Svizzera (in Ticino). Reggio, città caotica e in via di una disordinata espansione, è come un’adolescente cresciuta scompostamente troppo in fretta. In questo ritorno, “emigrazione di ritorno” il mare e il cielo blu sono solo un desiderio. Per lei più che per sua sorella e sua madre l’ambientarsi è molto problematico e il socializzare quasi impossibile. Le lezioni di catechismo in preparazione alla cresima, sacramento ridotto ad un rito e, impartite con didattica da quiz televisivi sono spesso incomprensibili e appartengono ad una realtà nella quale Marta non vive. Lei esile e fantasiosa, una vera aliena, in un mondo fatto di apparenze, cerca sbocchi di vera vita al di fuori della grigia realtà della vita quotidiana, nelle sue fughe o nel prendersi cura di qualche animale abbandonato. Il mondo le va stretto e gli adulti la opprimono. Nel suo universo sociale orbita anche il parroco, Don Mario, religioso non per vocazione ma per interesse e per desiderio di potere. Marta vuole evadere e così anche Don Mario, lei per desiderio di vivere i suoi sogni, lui per avere una parrocchia più grande, diventare più influente e forse diventare anche vescovo. In questo contesto di degrado urbano e di folclore della fede, si inserisce il simbolico episodio del crocifisso tradizionale che dovrebbe sostituire quello al neon, pacchiano e più da bar che da chiesa, che il traffichino Don Mario recupera in una chiesa abbandonata da Dio e dagli uomini, ma che nel trasporto finisce in mare. Naufraga il crocifisso e anche la speranza di don Mario di lasciare la parrocchia e diventare più importante. Marta, questo corpo celeste, in mezzo ad un ambiente depresso e materialistico, dove nemmeno la fede riesce a dare più un senso alla vita, continua, come in una favola a cercare la sua strada.

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