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MILLE GIORNI A SARAJEVO - Vent'anni fa...

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Il sei aprile 1992, vent’anni fa, a Sarajevo iniziava il più lungo assedio dalla fine della Seconda guerra mondiale. Le forze serbo-bosniache agli ordini di Karadzic e Mladic lasciarono la città bosniaca, completamente devastata, nell’autunno del 1995, all’indomani della firma degli accordi di Dayton. Sono i mille giorni di Sarajevo, stragi, stupri e deportazioni in uno scenario di pulizia etnica, culminato nella strage di Srebrenica, costata la vita a circa 8 mila civili bosniaci, nell’indifferenza di una comunità internazionale incapace di intervenire prontamente per sedare il conflitto. Ma "Mille giorni a Sarajevo" è anche il titolo del film-documentario del regista Giancarlo Bocchi proiettato, nella nuova versione restaurata, la settimana scorsa a Roma. Realizzato interamente “in prima linea”, in trincea , racconta tre vite in una città assediata dove molti vennero uccisi mentre facevano la fila per acqua e pane, mentre andavano a scuola e al mercato o per vedere un amico o un parente. Tre persone normali, Alija, ex funzionario televisivo, Graca un grafico di Oslobodenje il quotidiano di Sarajevo, Hidajet un ex manager di una grande azienda di Stato, che lottarono ogni giorno per non diventare impiegati di morte. Uscire da casa nel tardo pomeriggio per andare al fronte e tornare il giorno dopo come se fosse un lavoro qualsiasi significava difendere la normalità quotidiana, rifiutare l'annientamento. “E’ anche un film sul tempo”, sottolinea il regista. “In trincea il tempo si annulla perché lì un minuto può durare un anno, un giorno una vita interna. Si aspetta sempre qualcosa, un attacco, un ordine, la morte, circondati da un silenzio surreale”, racconta il regista. Giancarlo Bocchi, oltre ad essere uno dei pochi giornalisti occidentali a scegliere di vivere in trincea per raccontare l’assedio, è l'unico autore europeo ad aver realizzato quattro documentari e un film per il cinema sul conflitto serbo bosniaco. Come Il tunnel segreto di Sarajevo, una testimonianza unica sulla galleria lunga settecento metri scavata con le mani, pale e picconi e a lume di lanterna dai bosniaci musulmani sotto la pista dell'aeroporto di Sarajevo per unire le due parti libere della città, Dobrinja e Butmla. Un’altra verità quella raccontata da Bocchi nei suoi documentari rispetto all’informazione ufficiale trasmessa dalle televisioni di tutto il mondo su una guerra che ha lasciato ferite profonde nel Paese balcanico e che ancora oggi condiziona gli equilibri europei. Dopo quasi quattordici anni dagli accordi di pace firmati a Dayton, sulla situazione politica in Bosnia Erzegovina rimane ancora un punto interrogativo.

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